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   I soggetti che Elisabetta Duminuco dipinge con consumata perizia (fiori, ortaggi, paesaggi e personaggi esotici) si impongono all’attenzione dell’osservatore più distratto con la forza silenziosa e ineludibile del dettaglio minuziosamente disegnato, dei colori intensi e brillanti, talvolta campiti come in antichi mosaici o vetrate, di una materia che si è come sublimata affiorando nella lucentezza preziosa delle superfici, ma conserva qualcosa di più oscuro e corporeo nelle sue improvvise corrosioni, nella carnalità molle di petali, gambi, foglie.

   È questa dimensione corporea, viscerale, refrattaria a lasciarsi dire nel linguaggio distanziante delle parole, che intride tutto lo spazio del quadro, sorretta da una padronanza di antiche tecniche prima lungamente indagate nelle ricette esoteriche di Plinio e Cennini, poi instancabilmente sperimentate e infine amorevolmente riprodotte. Corpo, tecnica: e cos’è davvero la tecnica, l’arte, se non l’attivazione di un percorso dove un fantasma ideale, privo di consistenza, si fa realtà oggettuale attraverso un confronto assiduo tra il corpo dell’artista e le materie e gli strumenti del suo fare? E quando l’oggetto, l’opera, c’è, non c’è più l’idea, che nell’opera si è iscritta e risolta. C’è qualcosa di grandiosamente, risolutamente antiplatonico nel lavoro di Elisabetta, un coraggioso richiamo alla materialità dell’esistenza, celebrata prima di tutto nella natura vivente, dove tutto prolifica, dove le piante più domestiche intrecciano giungle lussureggianti, che si espandono nello spazio del quadro a riempire il vuoto della non esistenza con le molteplici forme della vita. Sono opere gremite, stipate di vita materiale.

   Ma il corpo che vive è anche corpo che soffre. Elisabetta dice che certi quadri li ha dipinti mentre soffriva tremendamente di mal di schiena: dice che ci sono tante spine in quei quadri, come delle fitte che si siano trasferite metonimicamente sulla tavola. Ma io credo che anche certe corolle slabbrate, certi intrichi e certe contorsioni vegetali, certe pieghe dei tessuti viventi della natura rimandino al dolore vero, quello fisico, quello che accompagna la malattia e il disfacimento dei corpi.

   Nella sua ricchezza e abbondanza di forme vitali, gioiose o sofferenti, l’arte di Elisabetta si qualifica come una pittura generosa, esorbitante, che non a caso predilige il grande formato, necessita delle tecniche laboriose di cui si diceva, e richiede dunque una grande quantità di tempo per essere realizzata: è anche, dunque, una pittura senza prezzo, che si sottrae al calcolo del rapporto fra tempo di produzione e quantità di prodotto. È lusso, scialo, cioè, ancora una volta, vitalità creativa.

   La scelta risolutamente figurativa mi pare motivata più dalla volontà dell’artista di collocarsi polemicamente nel solco della tradizione, perseguendo un’inattualità che guarda al classico e non a una modernità spesso desolante, che da un bisogno di mimesi, di documentazione realistica magari dell’insolito o dell’esotico. E se affondiamo lo sguardo negli ampi fogliami, nelle distese erbose, nelle larghe superfici delle ninfee, nelle sottili strisce di spiagge e marine, ritroviamo il ritmo astratto della texture, il pulsare informe della materia, l’esplosione luminosa di un colore assoluto.

   Chi conosce la passione e la raffinatezza con cui Elisabetta si dedica alla cucina, e non per pochi intimi ma per grandi e fameliche tavolate di amici, non potrà che restare colpito dalle molte analogie che legano quella sua pratica più domestica con questa sua alta ricerca espressiva: perché anche quando cucina, Elisabetta utilizza vecchie ricette tramandate in famiglia, di lunghissima elaborazione, che utilizzano ingredienti rari e i cui segreti restano ignoti ai profani. I cibi che prepara si offrono agli occhi e al naso prima ancora che al gusto dei suoi invitati come sculture colorate e fragranti: Elisabetta cucina come dipinge, con la stessa abbondanza, la stessa generosità, la stessa regale indifferenza ai costi, alle quantità, ai tempi. Ed è per questo che nella sua pittura il brulichio della natura, il senso profondo della materia vivente, la ricchezza delle forme, si possono leggere come dono nutriente, offerta materna che nel proteggere e custodire un’antica sapienza del fare ripropone, al di là e al di sopra di ogni effimera e sterile moda, la potenza e la continuità del ciclo vitale.

Prof. Carlo Forte 

 

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